Scritto nel ’35, “nel mezzo del cammin” della vita, Amori a Montparnasse è una sorta di resoconto delle avventure amorose dell’autore, una collezione di figure femminili che ne hanno spezzato il cuore e disilluso ogni aspettativa, rendendogli la vita impossibile, meravigliosa e ancora più solitaria. Sullo sfondo l’onnipresente quartiere della bohème parigina, con i suoi trucchi, le sue disgrazie, l’ancestrale bramosia di vita e d’amore che si respira a ogni passo, a ogni vicolo, a ogni caffè trangugiato a un tavolino della terrazza del Dôme.
Alessio ci narra della povera Gretly, modella diafana dal corpo legnoso e dal viso segnato dalla magrezza, povera e affranta, costretta a lasciare l’uomo della sua vita per permettergli di sfondare come artista. Gretlly che ora vive alla giornata, in uno studio fatiscente tappezzato di fogli di giornale e da qualche candela, mentre il suo compagno è diventato un pittore quotato, di successo, al punto da comparire su quegli stessi ritagli che le servono da coperta o da tappezzeria per non morire di freddo.
Leggiamo dell’innato odio dell’autore verso Kitty, tedesca altezzosa e fiera, seducente e spietata al punto da coinvolgere Alessio in una spirale di passione inebriante dai giorni contati. Sparirà, Kitty, senza dire una parola. La parola America pronunciata in tono sommesso dal concierge dell’albergo, l’edulcorata spiegazione dell’amica del cuore che assicura allo scrittore di essere stato certamente importante per quella donna dai gusti troppo raffinati, dai modi troppo borghesi, dalle necessità troppo costose. Un giro di ruota con quelli della bohème, un’avventura con lo scrittore italiano dal fascino gratuito, e poi un rientro rapido nei ranghi della vita di corte.
Ad Alessio rimane la consapevolezza di non avere niente da offrire a ognuna delle sue donne. Ogni momento di tenerezza, ogni contatto tra corpi, ogni dolcezza sussurrata nella penombra di una stanza vuota conferma ciò che l’uomo conosce fin dalla più tenera età e si illude di non sapere: si vive insieme, si muore soli. Per Luigi Alessio questa macabra ed essenziale verità si traveste di fugaci illusioni nel corso dell’esistenza. Illusioni che immediatamente evaporano alla luce del giorno, come i pochi quattrini che racimola con le collaborazioni editoriali e con le elemosine quotidiane. Il tempo di un pernod, di una bistecca, e tutto ritorna come prima: le giornate a camminare col pilota automatico, la testa bassa, i pensieri annidati nella trincea dei sensi di colpa e le domande immense a scandire il rintocco dei secondi. L’unica donna fedele è Madame Miseria, che costringe a fare i conti con l’essenziale: un pasto, un tetto, un sorriso. Esigenze-base per non sprofondare nella follia, nella depressione o nel suicidio. In Alessio, quando una o addirittura tutte e tre le necessità vengono a mancare in contemporanea per un tempo prolungato, ecco che la corazza si scheggia, il serpente soffre ma cambia pelle, sorge una nuova consapevolezza nell’uomo orfano di patria e d’amore. L’assenza cagiona il riempimento. La brocca vuota si colma di fede, di ardore, di volontà. Il pendolo oscilla vertiginosamente da una parte e dall’altra, a bruschi strappi, a salti improvvisi, stordendo con i continui rintocchi le invisibili inversioni di marcia.
Una linea narrativa, quella dell’autore, che testimonia la propria personalissima recita sul palcoscenico della vita, inserita fra il primissimo In grigio e nero e il conclusivo Anime di esiliati.
La differenza sostanziale con gli altri due romanzi della trilogia autobiografica sta nelle tonalità e nelle sfumature della narrazione. Qui il gioco si fa meno brutale, meno cinico, meno agguerrito. Vi è una maggiore coscienza dell’ironia del destino, un tono più distaccato e quindi più felice, meno tetro e rancoroso, spesso tendente al picaresco. Lo dimostrano l’incipit e l’explicit del romanzo: un’orgia in apertura e un’altra in chiusura, a testimonianza della verve goliardica che impera sulle altre atmosfere – più rarefatte e meno incisive – del testo. In sostanza, una rapida carrellata di nottate ubriache, compagnie irrefrenabili, amicizie indistruttibili, peripezie amorose e sorprese inaspettate…
La leggerezza del testo (poco più di cento pagine) è indice della volontà dell’autore, non tanto smanioso di narrarci le conquiste o i drammi personali, quanto di rendere omaggio a quell’irripetibile e maledettissima stagione che fu l’ultima bohéme.