Una lingua enigmatica, oscura, dai risvolti violenti e anarchica in ogni sua fibra sintattico-semantica, criptica per i più e accessibile solo a pochi: ecco la carta d’identità dell’argot secondo Luigi Alessio, che nel suo Vocabolario illustra ai profani le subdole meraviglie di un idioma sotterraneo e criminale.

Gergo della banlieue che si prende gioco del lessico convenzionale e rinnega ogni forma di parentela con il suo gemello popolare – l’argot – ci spiega Alessio, non può essere ridotto a semplice raccolta di sostantivi e aggettivi banditi dal codice linguistico nazionale. Nella sua anima nera vi è molto di più. Le sue regole, la sua sintassi sono il prodotto di un intento comunicativo elitario. È, almeno in origine, il linguaggio segreto della malavita, della delinquenza; un club al quale partecipano solo pochi eletti, i membri di una microsocietà dalle regole invertite, dai modi e dai principi specularmente opposti alla morale e al quieto vivere cittadino. La sua è un’ossatura di tenebra, nelle sue vene scorre un sangue corrotto e bastardo. Lo dimostra il fatto che nell’impianto lessicografico di questa lingua del diavolo non troviamo vocaboli riferiti all’onestà muliebre, alla virtù o all’onore. In compenso rileviamo una trentina di varianti per il verbo “bere” e una quarantina per “ubriachezza”, quattordici per il verbo “assassinare” e addirittura ottanta per definire la “donna dai facili costumi”. È una lingua che muove i propri passi su una superficie comunicativa notturna, fatta di traffici, tradimenti, furti e omicidi. Ma in essa, sottolinea l’autore, nella sua linfa sotterranea e dannata, vi è un’innata verve poetica, una vitalità allegra e contagiosa, un costante rimodellamento del linguaggio popolare su calchi linguistici audaci, rischiosi e immediati. Parole come fièvre cerebrale, indicante la condanna a morte, o mirettes, vocabolo che vuole trasmettere la scossa data da un paio di splendidi occhi femminili, veicolano la potenza comunicativa di un codice che nasce per servire i membri di una società parallela e viene, immancabilmente, a contaminare con la sua freschezza e la sua energica lotta per la sopravvivenza anche l’idioma standard.

La peculiarità, il valore aggiunto di questo mini-compendio del lessico argotico consiste nel pozzo nefasto e limoso dal quale l’autore attinge per abbeverarsi di sintagmi, slogature sintattiche, flash metaforici e giochi di prestigio sillabici. La sua fonte è la strada sporca e bagnata, unta di sangue e destini spezzati, e il movimento linguistico che si accartoccia sulle labbra asciutte di Alessio, affamato e reduce dallo sforzo traduttorio del Voyage, è il parto di avventure picaresche e folli nottate alla berlina, albe vissute allo stremo delle forze e passioni cicatrizzate sulla pelle da duro condottiero metropolitano. In Alessio, per dirla con il suo Vocabolario, non vi è dégonflage di nessun tipo. Il coraggio della penna è lo stesso della vita, e da reietto qual è sceglie di regalare ai contemporanei un manufatto artistico di rilievo: una personale odissea nei meandri burleschi e ambigui dell’argot. Da veterano, non da scolaretto ammuffito sui banchi di scuola. Da canaglia patentata, ammaccata dalla vita come un fagot della Guyana francese, irrisa e sbeffeggiata dagli dei del caso, perennemente all’angolo col suo mucchio di fogli bruciati e un mozzicone lacrimante cenere sulle toppe sdrucite della vecchia camicia a scacchi. Il linguista si mescola al farabutto, l’analista sintattico si sbronza al tavolo dell’avvinnazzato, il traduttore gioca a rimpiattino col baro e quello che ne esce è un album dei ricordi dell’autore, delle sue sconfinate pagaiate nei marosi del fato e del suo apprendimento alla scuola della criminalità manierista d’Oltralpe. Alessio è del popolo, ne vive i bassifondi, ne respira le tragedie e le meschinità quotidiane e ci lascia questo piccolo gioiello di vita vissuta, di tremenda e disperata crociera negli abissi della langue verte.