Montparnasse.
Covo di rifugiati, esuli, disperati, vagabondi, reietti, banditi, la Parigi dei primi trent’anni del Novecento è la caput mundi dei viaggiatori, dei sognatori, dei poeti, di chi intende rifarsi una vita o semplicemente sperimentare il gusto dell’avventura.

È il terminale artistico di un’umanità sensibile, ostile alla guerra, avversa ai totalitarismi, contraria a ogni forma di imposizione, restia allo schema borghese lavoro-casa-famiglia. Un’umanità che vive secondo altre leggi, per cui ogni giornata è diversa dall’altra e si riduce, molto spesso, a una caccia disperata al sussidio, al rifornimento alimentare, a un giaciglio che possa accogliere le membra spossate e gli occhi iniettati di immagini roboanti e fantasmagoriche. È un coacervo babelico, Parigi, che ospita milioni di profughi, provenienti da ogni parte d’Europa e del globo. Gli italiani sono in netta maggioranza. Si calcoli che nel 1931 saranno più di 800’000 e costituiranno il 27% degli stranieri residenti su suolo transalpino.

Inoltre Parigi possiede, rispetto alle altre città europee, un fascino irresistibile. La capitale è il catalizzatore del Vecchio Continente: il movimento dadaista, gli anni folli del surrealismo e della Festa mobile di Hemingway, cui partecipano i numi tutelari della letteratura novecentesca, da Joyce a Dos Passos, da Fitzgerald a Sherwood Anderson, da Ezra Pound a Thomas Stearn Eliot… Le penne immortali degli dèi della letteratura moderna si radunano al Dôme o alla Rotonde a scrivere su tovaglioli e scontrini, ordinare whisky e soda o pernod con ghiaccio, spremendo la vita a forza di conquiste sentimentali, bevute colossali, baccanali infiniti, recensioni offensive ed entusiastiche, discussioni accese e fisicamente spossanti su quello che è il presente della generazione perduta, lo strascico delirante della Grande Guerra…

E prima di loro, a Montmartre e Montparnasse, imperano i grandi esponenti del cubismo e dell’espressionismo: Picasso, Chagal, Matisse, Mirò…
Le loro tele effigiano la contemporaneità, ribaltano forme e colori, deviano linee e percezioni, sfuggono ai canoni e si danno battaglia nell’ombelico artistico del mondo, nella fulminante esplosione di genio che schizza sui tavolini dei bistrot, negli atelier sotterranei, sulle mura di camere d’albergo affittate per pochi franchi.

È qui, nel ventre carnevalesco e folle d’Europa, che approda Luigi Alessio. Spossato dalle faide politiche, dai tradimenti, dai continui progetti ammutinati, dalle ideologie e dalla provincialità di casa, lo scrittore compie la sua scelta. Smette gli abiti piccolo-borghesi e veste i panni del bohémien. La sua è una decisione che nulla ha a vedere con i cosiddetti “amatori”, benestanti che giocavano a fare gli artisti ed erano pronti a rientrare nei ranghi quando le cose si mettevano male. Quella di Alessio è una discesa rocambolesca e confusa nei meandri della miseria, della fame più nera, dell’autodistruzione fisica e morale. Ridotto sovente all’elemosina, la sua Parigi non è quella visitata dai borghesi in vacanza e neppure quella dei profughi che hanno trovato in essa un riparo e un lavoro. È il carro del diavolo, quello sul quale è salito Alessio. Ed è un carro trascinato al fondo di un’oscurità infinita e diabolica, in cui l’arte è il solo appiglio per non perdersi del tutto fra le grinfie di una città labirintica e carnivora.

Pubblica in questo periodo il romanzo Tu seras reine (1931), la novella Piccola sirena (1935), ma, soprattutto, grazie alle sue conoscenze del francese gergale e popolare, traduce il Viaggio al termine della notte di L. F. Céline (1933), opera capitale della letteratura francese del Novecento.