Il primo libro della “trilogia dell’esilio” vede l’autore alle prese con la mano che il destino gli ha servito: morte, abbandono, violenza, angoscia sono solo alcune delle prove da superare per il giovane hobo Luigi Alessio, vagabondo senza patria costretto a imparare i mestieri più umili e a fronteggiare la miseria negli anni che vanno dall’infanzia alla tarda adolescenza.
La scomparsa prematura dei genitori, quando Alessio ha solo nove anni, lo porta ad affrontare la dura realtà della disaffezione, del distacco da ogni sentimento positivo: solidarietà, amicizia, fiducia sono parole vuote, romanticherie da romanzo, non il pane quotidiano che viene servito alla mensa dei dimenticati da Dio. La “casa degli altri”, come viene chiamata nell’odeporico resoconto di una giovinezza dura e implacabile, è l’abitazione dei nonni materni in cui lo scrittore, ancora bambino, impara presto l’arte dell’invisibilità: parlare il meno possibile, presenziare solo quando serve, mangiare quel tanto che basta a sopravvivere e a non urtare l’avidità dei presenti.
Una casa da incubo, in cui l’arcigno tiranno che veste il titolo parentale di “nonno” percuote e umilia il ragazzo appena ne ha l’occasione, sfoggiando rabbia, rancore e iattanza all’indirizzo di un orfano che non può nulla non se non subire l’ira venefica di quel patriarca accidioso, cercando con tutte le sue forze di passare inosservato. La nonna, ologramma prosciugato di quella che un tempo era una fanciulla di belle speranze, irretita dal parentado nell’unione di convenienza con quell’uomo terribile, vegeta nella sua immobile attesa di morte. Non piange, non parla, non sente. Attende, semplicemente, di chiudere le palpebre, di non vedere più il grigio asettico e spettrale che la circonda.
In quella casa altri ragazzi, prima di Alessio, hanno sofferto e sono scomparsi: un figlio reso demente dall’odio genitoriale, dalle privazioni fisiche e morali, dal malessere costante, braccato nell’oscurità di una soffitta dov’era rinchiuso insieme ai suoi sogni, ai suoi libri, alle sue fatiche immani e dalla quale, un giorno, non sarebbe più uscito; una figlia morta a vent’anni di tisi e di cui, in casa, non aleggia neppure l’ombra del ricordo; e poi la madre del protagonista, donna dal futuro segnato ma decisa a non soccombere in quel buio spirituale, andata in sposa a un uomo che l’ha amata al punto da non sopportarne la perdita, seguendola subito dopo.
I ricordi si affastellano nella mente del ragazzo, ovvio bersaglio di soprusi e attacchi, mentre annaspa disperatamente in quella nebbia mefitica di tabacco essiccato e minestra. Fatica a non crollare, a non lasciarsi vincere dal terrore, a non perdere la bussola della ragione come già è successo ad altri in quella casa. Dalla volontà d’acciaio che anima il ragazzo e non gli permette di cedere si può intuire un poco di quella che sarà la vita futura: autentica, battagliera, imprevedibile, orgogliosa, audace.
Appena ha l’età per impugnare la baionetta saluta i non-morti di casa Allasia e parte per la missione dannunziana a Fiume. Si unisce ad altri vagabondi, sognatori, utopisti decisi a combattere per la patria. Non lo fa per idealismo, quanto per iniziare una nuova vita. Assapora la libertà, la paura della morte, e torna cambiato, solo, senza una casa. Inizia qui il suo pellegrinaggio esistenziale, il viaggio al termine della notte di un Bardamu d’Oltralpe, libero e incattivito, animale da strada e intellettuale guerrigliero, onesto e ribelle, pronto a un certame con la vita lento, logorante e straordinario.
Alessio, al ritorno da Fiume, impatta con una realtà tutt’altro che promettente: di lavoro a Torino non ce n’è e dai pochi conoscenti gli viene rimproverato di non aver atteso la morte del nonno per accaparrarsi l’eredità. Sfibrato, affamato, costretto a dormire in androni sudici fra topi, insetti e immondizie, il ragazzo accetta la paga da fame di un’impresa di costruzioni. Presto i colleghi di lavoro insegnano alla matricola come guadagnarsi il rispetto. Le sevizie quotidiane induriscono la corteccia dello sbarbo, che inizia ad attaccare per primo e a colpire spietatamente senza porsi domande. Capisce, Alessio, che la legge è una e una soltanto. È un mondo feroce, di uomini che sfogano i propri istinti belluini nelle osterie, di schiavi senz’anima costretti alla miseria e alle percosse, di padroni indifferenti e avidi, di porte chiuse e schiaffi a ogni tentativo di riscossa.
Una prostituta avvizzita e deforme, triviale e sudicia, sarà la sua iniziatrice alle gioie del sesso. Una banda di criminali, ai quali si unirà dopo essere svenuto a causa dell’estrema assenza di cibo, la sua famiglia. Alessio muove i suoi passi di paese in paese, verso gli Appennini e oltre, in Croazia e Dalmazia. Puttane, delinquenti, zigani sono le sue guide. Lavori mal pagati e durissimi i suoi maestri. Fa il falciatore di fieno, il muratore, il macchinista, il facchino. Spesso trova da lavorare nei campi, una fornace incandescente dove gli uomini si abbruttiscono di ora in ora, sempre più simili a belve, sempre più primitivi ed egoisti. Non c’è niente di idilliaco o di edenico nella campagna. C’è lo scricchiolio delle ossa, le busse quando ti fermi più di qualche minuto, la sete inesauribile, il sole assassino che non ti dà pace… Gli amori sono febbrili, carnali, consumati fra le spighe di grano nelle ore più torride. Sedici ore di lavoro al giorno, il sangue alla testa e il pensiero fisso della rivolta, dell’insurrezione, della guerra al padrone, al ricco, ai bastardi che ce l’hanno fatta.
L’equazione è matematica: pensieri simili portano solo guai. E allora arrivano il carcere, le frustate col cuoio, la cella minuscola, i corpi stipati e infetti, l’attesa spasmodica e interminabile… E poi di nuovo sulla strada. Altri lavori, altri incontri: la fonderia, l’impiego come segretario in ufficio e infine la pensione dove incontrerà la Contessa, nobile decaduta alla quale Alessio si rivolge per tutto il romanzo, unica interlocutrice in grado di capire un poco le miserie che hanno portato l’autore a diventare quello che è. Questo perché anche la Contessa, a dispetto del rango, ha una storia infame, cicatrici e macchie interiori indelebili. Anima ferita e umiliata, imprigionata dalle convenzioni e dal destino segnato, figura umanissima e solitaria come il protagonista, votata anch’essa all’oblio, alla fatica e alla sofferenza, la Contessa rappresenta la madre che lo scrittore desidera stringere a sé e dalla quale finirà immancabilmente per separarsi.
In grigio e nero è in fondo un omaggio alla vita, all’esperienza, alla perseveranza, nonostante il cinismo e la tristezza che dominano l’atmosfera di un nord Italia egoista e barbaro. Costellato di personaggi straziati e derelitti, banda di spettri alle prese con un’epoca di asprezze e difficoltà insormontabili, un’epoca scevra di ogni solidarietà, mutilata di ogni pretesa pacifista, il romanzo mostra l’evoluzione spirituale del protagonista, il suo personalissimo esperimento alchimistico: una volta che la materia grezza è sottoposta alle pressioni dell’incudine e della fornace, la scorza si rafforza, il cuore si indurisce, l’anima si eleva al di sopra delle miserie o soccombe con esse. Alessio dimostra qui il suo intento primario di essere umano, il suo istinto ferale di animale braccato: giungere ai confini della miseria e della disperazione al fine di rivelare il volto dietro la maschera.