Nel 1939 Luigi Alessio si trova a Caramagna, presumibilmente tornato per riabbracciare la famiglia. Il coinvolgimento dell’Italia nel secondo conflitto mondiale lo convince a restare, viste anche le difficoltà legate all’attraversamento delle frontiere e data la possibilità di restare accanto ai propri cari durante quei drammatici, durissimi anni di privazioni e stenti.
Dopo un breve periodo trascorso nel paese natio, Alessio si trasferisce per alcuni mesi a Torino, che trova cambiata rispetto alla sua partenza. La ristrutturazione di via Roma, compiutasi tra il ’31 e il ’37, i mastodontici edifici pubblici come lo Stadio Mussolini, l’Istituto elettrotecnico Galileo Ferraris, il complesso ospedaliero delle Molinette, i parchi urbani di San Paolo, di Millefonti, della Pellerina, lo stabilimento della Fiat a Mirafiori, i 54’000 alloggiamenti costruiti tra il ’27 e il ’29 per le “case popolari” della città, l’ampliamento demografico di Barriera di Milano, di Madonna di Campagna e del Lingotto, dove ora risiedono 22’000 abitanti, i nuovi ponti sul Po (corso Belgio, corso Bramante) e quello di Giulio Cesare sulla Stura sono solo alcuni dei progetti realizzati dal regime durante quei dodici anni di esilio forzato.
Una città che sembra riconsiderare gli spazi, espandendosi e dilatando le prospettive: un cambiamento, oltre che fisico, psicologico. Quando l’8 ottobre 1940 verrà installata un’enorme carta geografica atta a individuare gli spostamenti delle truppe italiane sui vari fronti di guerra, la popolazione prende a familiarizzare con luoghi fino a quel momento sconosciuti, assimilandone le coordinate spaziali e rendendole parte del proprio vissuto quotidiano. In breve, quelle distanze dapprima così amiche paiono trasformarsi in qualcosa di sconosciuto, lontano e invalicabile. I collegamenti tra le città diventano più difficoltosi, così come quelli tra il centro e la periferia. A uno spazio assurdamente dilatato per via della guerra cosiddetta “totale”, che coinvolge qualunque ceto sociale nella visione apocalittica del conflitto, si contrappone uno spazio reale irto di ostacoli, costringente i nuclei abitati a separarsi e fare parte per se stessi.
Il biotopo cittadino viene messo a dura prova: gli equilibri si sbilanciano, l’uomo libero si trova a fronteggiare questioni più grandi di lui, che gli impongono rinunce, sacrifici e sofferenze inattese. Le abitudini vengono stravolte, il tessuto urbano muta radicalmente. Traversare una via in un lasso di tempo che prima era immediato diviene un’odissea infinita. I canali di comunicazione sono ostruiti; la linfa vitale della città, costituita da negozianti, portinaie e venditori ambulanti, è prosciugata e ridotta all’isolamento. In breve, la rete dei trasporti è annichilita e la città ne soffre piaghe indicibili.
I piani di espansione urbanistici sulle rive del Po, le due biennali dell’Autarchia che dovevano tenersi nel ’41 e nel ’45, il canale navigabile sul Lago Maggiore che avrebbe dovuto collegare Torino a Milano, sono progetti che evaporano nel giro di pochi mesi. Il tempo e lo spazio divengono in breve quelli della sopravvivenza giornaliera: ecco i primi bombardamenti, la tesserazione dei generi alimentari, il blocco totale dei prezzi entrato in vigore nel giugno del ’40, i parchi adibiti a orti per cercare di fronteggiare la fame, il mostro atavico che spezza la tempra dei torinesi e li riduce a fantocci scheletrici e barcollanti. Già alla fine del 1940 l’aumento dei prezzi, l’insufficienza dei generi alimentari, l’abbassamento dei salari incidono sul morale cittadino, che sembra presagire il quinquennio di sforzi immani da sopportare per non soccombere dinnanzi alla più grande catastrofe che il secolo abbia mai conosciuto.