Coevo a Pitagora (1940) e Bismarck (1940), la Storia del lavoro s’inserisce nel novero dei testi scritti a scopo “alimentare”. È compilato da Alessio nel periodo in cui si trova a Roma con la figlia Angiolina, appena diciassettenne, che lo aiuta sobbarcandosi buona parte del “lavoro sporco” legato soprattutto alle ricerca delle fonti.
In realtà l’idea di tradurre in poco più di 700 pagine quella che l’autore stesso definisce come “una lunga cavalcata attraverso i secoli” non è autonoma, ma proviene dall’editore Enrico Dall’Oglio, amico di Alessio e proprietario della casa editrice Corbaccio. Dall’Oglio ventila allo scrittore l’ipotesi di un compendio storico che narri gli sviluppi, l’emancipazione, i traguardi delle tecniche professionali inventate o scoperte dall’uomo lungo un arco di tempo che va dalla preistoria alla prima metà del Novecento.
Una sorta di enciclopedia, fitta di date e di tabelle (soprattutto la parte finale dell’opera, dedicata alla prime due rivoluzioni industriali), nella quale la penna dell’autore è talvolta costretta dalla necessità di riportare gli avvenimenti con precisione senza eccessive divagazioni. Ne risulta un lavoro che, se in parte è sicuramente interessante e originale per quanto riguarda gli intenti, dall’altra rischia di risultare stucchevole, monotono e poco convincente. Non è semplice riassumere in qualche centinaio di pagine i progressi millenari compiuti nei più disparati ambiti lavorativi, vista soprattutto l’impossibilità di scindere gli stessi dalle conseguenze sociali, dal contesto storico-politico e dagli impatti economici prodotti. Esimersi dall’approfondire lo sguardo su cause ed effetti porterebbe a un prodotto mutilato e fallace, mentre l’autore intende restituire un manuale sintetico ma esaustivo per quanto concerne la temperie culturale delle varie epoche, cosa che condiziona l’opera, improntandola a una scelta stilistica talvolta didascalica e piatta.
La congerie di informazioni dev’essere naturalmente strutturata all’interno di una scaletta cronologica che poco lascia alla fantasia e alla verve istrionica dell’autore. Si parte con una breve carrellata su quello che è il mondo del lavoro nella preistoria: tredici secoli e quattro epoche condensate in una settantina di pagine, focalizzate su pochi, necessari avvenimenti. La scoperta del fuoco, la lavorazione della pietra, del legno e del metallo, il dominio sugli animali esercitato attraverso l’agricoltura e la pastorizia, la nascita dei primi rudimentali mezzi di trasporto, i primi contatti tra i popoli e le prime guerre a scopo commerciale. Alessio segue una linea cronologica che lo porta alla nascita della scrittura e al consolidarsi delle prime società di uomini liberi. Passa poi a una disamina del lavoro nella Grecia antica, ripartendolo a seconda che si tratti del periodo omerico, arcaico, ateniese o di quello ellenistico.
L’autore si concentra principalmente sulla scissione tra lavoro di stampo familiare ed economia urbana, sull’impatto avuto dall’aristocrazia fondiaria e dalla colonizzazione con la conseguente nascita del regime commerciale, industriale e monetario del VI secolo. Analizza in seguito la società spartana e quella ateniese, la mano d’opera servile, lo sviluppo delle tecniche agricole, il commercio basato soprattutto sulle società minerarie e marittime, le prime embrionali strutture bancarie, le lotte di classe e un tentativo quasi riuscito di unità monetaria nel Peloponneso.
La parte terza vede l’autore alle prese con le tre età di Roma caput mundi: terra, corporazioni, industrie e commerci di Roma antica, per poi passare alla nuova economia della Repubblica, l’evoluzione dell’agricoltura, la ricchezza e il lusso sfrenati che presagiscono i folli fasti dell’età imperiale, e infine le corporazioni, la decadenza della schiavitù e il crollo economico del mondo romano che aprono le porte alle invasioni barbariche.
La quarta parte, lunga un centinaio di pagine, è strutturata tra Alto Medioevo, età feudale e fine dell’era di mezzo. Dopo una valutazione circa le condizioni delle classi rurali tra il VII e il IX secolo, Alessio analizza la rinascita commerciale-industriale e l’emancipazione di città e campagna sotto il feudalesimo. Il capitolo sul Medioevo si conclude con l’avvento dell’economia nazionale e il progressivo dominio della borghesia capitalista, grazie alla quale l’Europa moderna, protagonista della parte quinta, vivrà una delle stagioni più prolifiche di sempre sotto il profilo economico, culturale e sociale.
Il lavoro nel Vecchio Continente dal XV al XVIII secolo è parte integrante della politica colonialista esercitata nei confronti delle Americhe e delle Indie, mentre la divisione tra Oriente e Occidente è solo lambita dall’autore, che nell’incipit della parte quinta precisa l’intento di volersi occupare esclusivamente dell’Europa occidentale. L’autore sceglie, qui, di concentrarsi, dopo aver passato in rassegna l’evoluzione socio-economica di Francia, Inghilterra, Spagna, Olanda e Portogallo, sull’Italia: Venezia, Genova, la Firenze medicea, Roma, Napoli, il Milanese e il Piemontese occupano qualche decina di pagine prima di giungere alla fine dell’era moderna e all’origini del macchinismo che sancisce l’entrata nell’epoca contemporanea.
Qui, naturalmente, le grandi trasformazioni tecniche, la specializzazione dell’industria, la nascita dei primi istituti di credito, l’affermarsi del capitalismo, le lotte sindacali, i progressi sociali, il ritorno al protezionismo, l’evoluzione agricola e le conseguenze derivate dal conflitto mondiale occupano quasi un terzo dell’opera, complice anche il largo utilizzo di grafici e tabelle che cristallizzano la prosa di Alessio, meno viva e maggiormente infarcita di tecnicismi rispetto alla prima parte.
Lo stesso autore si rende conto del tedio cui sottopone il lettore e ammette la necessità, nelle pagine conclusive dell’opera, di arrestare il dilagante flusso informativo, interrompendo bruscamente, con una conclusione troppo sbrigativa (e piuttosto retorica), il resoconto mastodontico della Storia del lavoro. Sembra dunque che l’opera, rispetto alle altre scritte a scopi “alimentari” quali il Bismarck o Pitagora, parta bene, accattivando il lettore, con l’intento di condurlo per mano attraverso gli infiniti e complessi sentieri dell’evoluzione tecnologica e sociale, finendo però col perdersi progressivamente, capitolo dopo capitolo, nell’elencazione sterile e monotona di statistiche e stime.
Va comunque lodato il fatto di aver dato alle stampe una sintesi ben riuscita, anche se gravata da una zavorra informativa troppo importante, dell’operosità umana e della sua invincibile perseveranza.